Quando uscì
I quindicimila passi – era il 2002 –, il suo autore, Vitaliano Trevisan (si legge
Trevisàn), si trovava in Kenya a masticare foglie di
qat.
Con l’ansia di dover tornare a casa, prima o poi: “nel mio delirio,
iniziato ben prima di partire, mi ero convinto che non sarei tornato”.
Il testo di
Works
(2016; ed. ampliata 2022) lo esprime con la massima chiarezza: il
rientro in Italia è la morte, l’Africa è la vita; casa sua una cripta in
attesa del feretro, la stanza in affitto a Mombasa una promessa di
felicità. E tutto ciò sebbene il rientro coincidesse, allora, dopo
decenni di lavori vari ed eventuali, e
faux pas, intoppi e false partenze puntualmente e magnificamente raccontati nell’autobiografico
Works, con l’inizio a lungo atteso della sua “seconda vita” di scrittore e drammaturgo a pieno titolo.
Poco tempo fa – vent’anni dopo – è uscito il racconto di una sua
ulteriore “fuga in Africa”, il cui manoscritto, incompiuto, è stato
consegnato dall’autore alla casa editrice prima del suicidio, avvenuto
il 7 gennaio dello scorso anno nella sua casa a Crespadoro, in provincia
di Vicenza. È il postumo Black Tulips,
resoconto di un’esperienza in Nigeria risalente al periodo in cui, poco
prima del successo letterario, Trevisan lavorava come portiere di
notte. Immaginando di mettere su un import-export di pezzi usati di
ricambio per automobili, e forte della sua esperienza diretta delle
comunità edo e igbo in Veneto, conosciute tramite la sua
regolare frequentazione di prostitute nigeriane, Trevisan, come racconta
nel libro, si era recato prima a Lagos e poi a Benin City (da cui
proverrebbe l’85% delle prostitute nigeriane in Italia) per seguire Ade, rimpatriata perché clandestina.
Avventore dei bassifondi, antipuritano, immoralista, emarginato e
dunque vicino agli emarginati cosiddetti, nel suo ultimo libro Trevisan,
Céline nostrano, non fa mistero di avere in odio l’ipocrisia, la
pubblica morale e un’ideologia “progressista, umanitaria e corretta”,
che sulla prostituta e chi la frequenta impongono il loro stigma. Ma
soprattutto Black Tulips tenta di mostrare lo scopo del viaggio:
vedere con i propri occhi, questa l’espressione ripetutagli dalle
ragazze frequentate. Vedere con i suoi occhi e comprendere, e mettere in
discussione il suo sguardo da oyibo, da non indigeno, che è quasi inevitabilmente anche quello del lettore – “Ed era proprio questo a darmi fastidio: sentirmi bianco oltre il colore della pelle, cioè rispondere effettivamente, intimamente, a quell’inesorabile epiteto, oyibo”.
Liberarsi, dunque, del proprio punto di vista imposto, che è “un
occhiale eminentemente economico, di mercato”, e al contempo
“lentissimissimamente re-imparare a sentire”. E idealmente rinunciare
alla letteratura, già che c’è, à la Rimbaud. C’era un modo migliore per congedarsi dal mondo, e dalle lettere, che con un libro come questo?
Un destino
Idealmente, Black Tulips riempie uno dei vuoti di Works, che d’altro canto non è che un’“autobiografia selettiva”, come l’ha definita
Paolo Zublena, perché incentrata sui molteplici lavori svolti da
Trevisan prima dei riconoscimenti letterari. Entrambi rientrano in
quella che è stata chiamata la “svolta autobiografica” della sua
produzione. Non che elementi marcatamente biografici mancassero nei
primi romanzi (la “pseudo-trilogia” bernhardiana di Un mondo meraviglioso, 1996, I quindicimila passi e Il ponte,
2007), anzi: li ritroviamo pressoché immutati, soltanto riscritti, nei
libri successivi. (Né erano assenti anche nel personaggio da lui scritto
e interpretato per Primo amore di Matteo Garrone, suo sconcertante esordio cinematografico, che fin dal titolo – beckettiano – tradisce la mano di Trevisan).
Si tratta piuttosto di un alleggerimento stilistico, uno smarcarsi
dai propri modelli. Ora Trevisan, quando parla di sé, non deve più
“inventare” o “affabulare”, quanto mettere insieme i ricordi, trovare
una loro espressione in termini di racconto, il che costringe a un
lavoro essenzialmente stilistico. E lo stile è sempre, nel senso più
alto, contenuto, perché è innanzitutto espressione di sé. Si fa perfetto
proprio là dove in apparenza la materia, il contenuto cosiddetto, ha
meno a che fare con la poiesi, la creatività e, peggio di tutto, la
fantasia, ma è solo, in senso assoluto, arte del raccontare. È proprio
in questi testi che si coglie la natura più intima dello scrittore
Trevisan – il suo ego scriptor, per dirla con Pound e Valéry. La
vita dello scrittore è già letteratura, perché chi scrive non può fare a
meno, vivendo, di pensarla in termini di letterarietà.
Addirittura, la vita dell’autore, scrive Trevisan in Black Tulips,
dichiarando (per l’ennesima volta) i suoi modelli – dalla trimurti
Bernhard-Beckett-Bacon ai vari Tennessee Williams, Joe Orton, Rainer
Werner Fassbinder, William Burroughs –, “non è mai altro dall’opera”,
anzi, “vivere o scrivere […], per chi scrive, è lo stesso”. L’uno si
tramuta nell’altro, l’uno esiste solo in funzione dell’altro.
È il gioco sull’ambiguità semantica contenuto nel titolo Works,
come spesso osservato: l’odissea nel “mondo del lavoro” compiuta
dall’autore, sì, ma anche il primato delle opere (letterarie, e non
solo). Da un lato, il mémoire si pone contro l’“ansia di
realizzazione di se stessi attraverso il lavoro” – la “fede nel lavoro”
assunta a religione pubblica, come se questo avesse un potere salvifico o
quantomeno “valorizzante”, da tappabuchi esistenziale (quale altro
senso di “realizzare se stessi”, ossia di “rendersi reali”, se la
maggior parte delle persone, quando sono prive di occupazione, nutrono
dubbi sulla propria esistenza?). Dall’altro, non tace la gioia del
lavoro ben fatto – le “scaled invention” e “true artistry” poundiane –
né il fatto che, alla fine, contano (e restano) solo le opere prodotte,
di cui Works è la summa e il commento. Perché mai come in Works, e in Black Tulips, si percepisce la sua consapevolezza di essere uno scrittore.
Works è l’opera monumentale, dunque, che racconta il lungo apprendistato di uno scrittore per diventare ciò che egli è.
Domandandosi come si è salvato dall’eroina (“Inevitabile questione
generazionale”, per un nato nel 1960 che, come nel suo caso, non è stato
estraneo alle droghe), si risponde che forse a salvarlo fu proprio la
scrittura – o meglio, siccome al tempo non scriveva nulla, l’idea di
poterne, un giorno, scrivere, coltivando nell’attesa il malinconico
“occhio […] del corrispondente”, dell’osservatore, che vive guardandosi
vivere. Per questo, le quasi settecento pagine di Works sono
attraversate dalla consapevolezza di una vocazione, o di un destino, che
l’ha tenuto vivo attraverso, e nonostante, i diversi lavori,
l’alienazione, i fallimenti (“Scrivo, e ho l’impressione che questo sia per sé un destino”, ammetteva già in uno degli essais di Tristissimi giardini, 2010, chiosando: “A ciascuno il suo contagocce”). Works
è l’opera monumentale, dunque, che racconta il lungo apprendistato di
uno scrittore per diventare ciò che egli è, quasi parafrasando Nietzsche
(e non solo, come ha detto il suo autore, un tentativo di “fare soldi sul proprio fallimento”).
Anche “se non scrivevo una riga, né tenevo un diario o altro, ero pur
sempre uno scrittore, e, in questo senso, niente di ciò che avevo fin
lì vissuto era stato buttato via, semmai il contrario”. Un’idea in cui
rifugiarsi “quando non restava altro”, di fronte a decenni di delusioni,
arresti, crisi, tracolli, passi falsi, separazioni, perdite. “Certo,
prima o poi avrei dovuto iniziare a scrivere, ma rimandavo. Meglio
vivere un altro po’, mi dicevo, perché quando inizierò a scrivere, se
dovessi fallire, allora sì che non avrò alcun posto dove rifugiarmi”.
Iniziare, finalmente, a scrivere significa non avere più scuse né alibi:
“una volta iniziato, non mi sarebbe stato possibile tornare indietro”.
Come poi, nei fatti, è stato.
Un conto in sospeso con la morte
Se già Works, con la sua relativa linearità e la struttura
tematica, costituiva un’innovazione considerevole rispetto agli esordi
nel solco di Thomas Bernhard, c’è in Black Tulips un ulteriore
scarto, questa volta ai limiti dello sperimentalismo (complice anche,
forse, la sua natura incompiuta e preliminare). Lo compongono “frantumi e
frammenti” giustapposti e inanellati, talvolta solo note e abbozzi,
scarni, sincopati. Ed è fortissima l’impostazione intermediale dello
scritto: il ritmo è mutuato dagli studi di batteria dell’autore; le
pause drammaturgiche dei dialoghi vengono dalla sua esperienza teatrale;
la necessità di ribadire che la storia è in “bianco e nero”, eccetto
per selezionate note di colore puntualmente segnalate, dimostra una
sviluppata sensibilità cinematografica, oltre che uno sguardo
“fotografico” e sempre meno narrativo – lontanissimo, in questo senso,
dalla diegesi assoluta dei romanzi bernhardiani.
Agli antipodi, oltretutto, rispetto alle complicazioni sintattiche e alla lingua “neutra” di prima, troviamo qui – come già in Works – espressioni forèste (fin dai titoli) e addirittura nel pidgin nigeriano, nonché nell’argot
veneto dell’autore (solo idioma in cui dicesse di sentirsi a casa); e
altresì una semplificazione della sintassi e della grammatica che va in
direzione della loro rottura, anche a costo di esiti strampalati,
“primitivi”: “non sono io (in negativo odiato pronome posso scrivere)”, o
“umani stanco in vita, da morto lasciato in pace vorrei essere lasciato
non essere. In pace”.
Sulla dipendenza dei primi lavori da
Thomas Bernhard si è detto molto, il debito è talmente evidente da
costringere alla domanda: è un omaggio? un plagio? un’imitazione? un
apocrifo cisalpino?
Il tutto in un movimento verso il puro cuore espressivo, e selvaggio,
della lingua, anche graficamente parlando, che corrisponde alla
semplificazione assoluta di sé, a un alleggerimento dalle sovrastrutture
psichiche e culturali: “Dovrei continuare da dove ho lasciato. Ma chi
lo dice? Non Io (eco beckettiana); Io non sono; non più Io; mai più Io.
Non dopo ciò che ho scritto. Per come l’ho scritto”. Il risultato è a
tratti allucinato e delirante, ma niente affatto insensato, pensando al
percorso letterario compiuto da Trevisan, che qui si vuole ricordare.
Sulla dipendenza dei primi lavori da Thomas Bernhard si è detto
molto, anche perché, per chi conosce quest’ultimo e si avvicina a
Trevisan, il debito è talmente evidente da costringere alla domanda: è
un omaggio? un plagio? un’imitazione? un apocrifo cisalpino? Dal nome
del protagonista, Thomas, al discorso indiretto libero “riportato” (la
cosiddetta berichtete Rede), con tanto di incisi diegetici con verba dicendi e altre simili strategie enunciative, fino al personaggio alienato, incatenato al proprio soliloquio: tutto sembra un pastiche di Bernhard.
E tutto, come in Bernhard, avviene all’ombra della morte di qualcuno,
annunciata o implicata fin dalle prime righe, dove il narratore, colui
che rimane, deve vivere, gestire, subire e soffrire le conseguenze
dell’altrui scomparsa. A dimostrazione, nell”uno come nell’altro,
dell’onnipotenza del pensiero della morte, che rompe qualsiasi difesa,
rende incolmabile qualsiasi vuoto, vanifica ogni speranza di
sopravvivenza autonoma. Nessun pensiero altro regge contro lo
straripare del pensiero dell’assenza. E la scrittura si rivela allora
per ciò che è: un tentativo di colmare l’abisso. Di riempire il
silenzio, il “vuoto intollerabile” in cui siamo stati lasciati, con un
flusso di parole che sia altrettanto incontenibile. Ma sono sempre
parole che, nascendo dal pensiero della morte e dal vuoto, possono a
malapena celarli. Prima o poi anche l’amuleto della scrittura viene
meno; banalmente, il testo finisce, nell’uno e nell’altro, sulla
constatazione della morte. Che ha così, letteralmente, l’ultima parola.
Come scrive Trevisan ne Il ponte, “la scrittura ha sempre un
conto in sospeso con la morte”. Ed è questo l’aspetto che rimane
certamente fino alla fine, ossia fino a Black Tulips.
Su questa dipendenza si è, appunto, scritto di tutto – chi lodando
l’“epigonismo radicale” di Trevisan come “segno paradossale di libertà
inventiva” (Emanuele Trevi), chi stroncandolo perché “calco […]
stucchevole” e “imitazione dell’altrui nichilismo” (Franco Cordelli – il
quale, anni più tardi, però, gli riconobbe di essere maturato,
liberandosi da questa “ipoteca stilistica”). Zublena ha definito quella
del Thomas di Trevisan come un’“esistenza mancata”, un caso di
“ventriloquia” del Bernhard di cui porta il nome: il personaggio pensa,
scrive e racconta come lo scrittore austriaco perché – e questo nei
testi è esplicito – è da lui ossessionato ai limiti della mitomania,
finendo per essere “agito dalla voce di Bernhard”.
L’attenzione a Thomas Bernhard ha spesso distolto lo sguardo da ciò che quei romanzi dicevano per concentrarsi sulla maniera in cui lo dicevano.
Trevisan è reticente, perlopiù. Da un lato, ammette, per raccontare
il suo Veneto e in particolare Vicenza era richiesta una voce come
quella di Bernhard, scoperta letteraria per lui tardiva e fondamentale,
che gli permise di accelerare il processo che portò al fatidico inizio
della scrittura. Vuoi per la vicinanza geografica e culturale del
Triveneto all’Austria, vuoi per un ruolo storico di punto di contatto
tra il Mediterraneo e l’Europa centrale e settentrionale. Anche
Zanzotto, visto dal centro del Paese, era stato tacciato di essere un
epigono, un imitatore tardivo, in ogni caso un provinciale (che, nel
migliore dei casi, altro non può essere che un epigono o un imitatore,
se visto dal centro), quando in realtà nei suoi testi risuonava l’eco di
Hölderlin verso un Nord mitico cui, naturalmente, il Veneto tende.
Dall’altro, in realtà, Trevisan se ne fregava, forte del fatto che
l’opera d’arte è sempre, in qualche modo, imitativa. “Le mie letture
sono finalizzate al furto”, disse in occasione del quarantesimo
anniversario di Libera nos a Malo.
Mal de ła piera
Come che sia, l’attenzione a Thomas Bernhard ha spesso distolto lo sguardo da ciò che quei romanzi dicevano per concentrarsi sulla maniera in cui lo dicevano. E da altri modelli, meno palesi, ma non per questo irrilevanti. Come Le furie
di Guido Piovene, che è a sua volta il resoconto di una passeggiata
vicentina alla mercé dei propri fantasmi. E che nelle prime pagine
contiene un’indicazione di metodo essenziale anche per Trevisan:
“prendere rilievi come un geometra. È tempo di visioni, ma vere, che
siano ragione. Chi non è visionario forse non si potrà salvare. I nostri
incubi quotidiani appartengono al regno bruciato della verità. Dobbiamo
accettare questo terreno”.
Perito geometra che per anni ha lavorato, a vario titolo, alla
trasformazione industriale del suo territorio, Trevisan è stato anche
uno dei più lucidi osservatori e commentatori di questa trasformazione.
Ciò che rivendicava alla propria letteratura era la rappresentazione del
paesaggio introiettato nella psiche dell’individuo, che riorganizza in
base alla propria logica il pensiero di chi lo abita. Nel suo caso, si
tratta di un paesaggio – quello del cosiddetto Nord-Est – deturpato,
disfatto, inquinato, ricoperto di capannoni, fabbrichette, quartieri
residenziali simili a dormitori, zone industriali abbandonate, statali,
tangenziali, superstrade. Ci sarebbe molto da dire sul fatto che I quindicimila passi si apra con un esergo dalla Grundrisse:
“Ma l’epoca che genera questo modo di vedere, il modo di vedere
dell’individuo isolato, è proprio l”epoca dei rapporti sociali finora
più sviluppati”.
Thomas, ne I quindicimila passi, percorre a piedi “in lungo e
in largo il bosco di roveri – bosco che non esiste più da centinaia di
anni”, trasformato prima in campagna e poi in quella che altrove
Trevisan chiama “periferia diffusa”: “una campagna nebbiosa che non è
altro che il confuso ricordo di una campagna, distrutta dalle zone
artigianali e residenziali”. La città, oramai, “non è più che un
paesaggio fantomatico, fossile di società ormai trascorse”: chi la abita
spesso non ha più nulla a che vedere con chi l’ha costruita e abitata,
né per sangue, né per cultura, il che crea una distanza irriducibile con
la scenografia inutile e muta in cui si muove – castelli e palazzi
nobiliari senza nobili, chiese senza fedeli, eccetera. Già per Piovene,
all’epoca del Viaggio in Italia, gli abitanti dei cosiddetti
centri storici assomigliavano a “ospiti occasionali, senza storia, su un
fondale storico” che non sapevano più leggere, figuriamoci
interpretare. La vera creazione dell’uomo contemporaneo, parco di
monumenti, è la periferia, che è anche l’unica parte della città che può
espandersi. Il destino di ogni centro, così, è quello di venire presto o
tardi inglobato non già da altri centri, ma da un’immane anonima
periferia, acefala o autocefala che sia. Fenomeno, questo, che nel
Veneto centrale, ma nel Nord-Est in generale, è paurosamente evidente
(“a un certo punto, non è più chiaro se il territorio in cui ci muoviamo
sia la periferia di Vicenza, o non piuttosto la periferia di Padova, o
di Treviso, o di Verona, o di Bassano”). E così un paese come quello
dell’autore, Cavazzale, si ritrova tutt’a un tratto non più paese ma
periferia.
Tutta questa distesa d’asfalto – è ovvio – è funzionale allo spirito
del tempo, ossia la mobilità delle merci, quindi della forza lavoro,
quindi dei consumatori. Una logica, scrive Trevisan, che ha asservito il
territorio, rendendolo perennemente intasato, congestionato (la
congestione, l’autore lo ripete continuamente, è la condizione
necessaria e al tempo stesso l’effetto più tangibile della logica del
consumo), senza più possibilità di riscrittura del disco fisso dalla
“pattumiera urbanistico-architettonica” in cui si è trasformato, “che ci
assorda e ci squilibra non appena mettiamo il naso fuori di casa”.
Tutto ciò in Veneto ha un nome specifico: è il mal de ła piera,
l’ossessione isterica per la costruzione, l’edificazione, la
trasformazione del territorio. Una storia che leggiamo tra le righe di Works:
sullo sfondo di lavori innumeri ed effimeri, la palude viene
prosciugata, scompare il canneto dietro il magazzino, il pesce del fiume
non si può più pescare, la sua acqua ha cambiato colore.
Quello che Trevisan, di provincia e di
umili origini, rimproverava, tra le altre cose, agli intellettuali,
perlopiù romanocentrici e borghesi o piccoloborghesi, era l’ossessione
per una fantomatica Realtà che, a sua detta, non conoscevano affatto.
I testi raccolti in Tristissimi giardini sono introdotti da un versetto di Isaia
(5, 8): “Guai a voi che aggiungete casa a casa / e poderi a poderi /
fino a che c”è spazio! / Vi starete voi soltanto / sulla terra?”. A un
goffo intervistatore, Trevisan, che credeva non in Dio ma “nel peccato,
imperdonabile, di essere venuto al mondo”, ricordava
il proseguimento del testo biblico: la collera del Signore farà pascoli
di queste costruzioni, prima della venuta di popoli stranieri. Lo
scrittore e drammaturgo assume i panni del profeta, la cui simpatia è
tutta per i nuovi barbari.
Sarà che Goffredo Parise, in un momento panico sulle rive del Piave,
aveva scritto che il “Veneto era, ed è, forte, barbaro, e dunque
produttivo e dunque industriale”, tesi ripresa da Trevisan in Tristissimi giardini
per affermare che i Veneti, barbari per natura e “nati […] per
distruggere, distruggono costruendo”. Il vero volto dell’industrialismo e
dell’operosità da barzelletta non sarebbe allora la produzione, ma la
distruzione cieca. E Trevisan – benché, nella fase bernhardiana, Nestbeschmutzer
(letteralmente, “uno che insozza il proprio nido”) – non nasconde, in
ciò, un certo orgoglio di appartenenza (né lo nascondeva Parise),
riconoscendosi barbaro a sua volta. Il fatto che egli, in quanto
scrittore, “si limiti a distruggere il mondo sulla carta, battendo sui
tasti di un portatile, anziché distruggerlo manovrando una macchina
escavatrice o una betoniera, non fa una gran differenza”.
Rovina delle rovine, crollo nel crollo
L’idea alla base – “quella più importante, fondamentale, […] l’idea non
detta, forse addirittura non pensata, ma ovvia, necessaria, presente
anche in assenza” – è l’idea che il territorio sia, ancor peggio che nel
versetto di Isaia, “frazionabile ed edificabile e in definitiva
sfruttabile all’infinito”. È la forma della follia contemporanea, il
vero volto della “legge del consumo, […] rovina delle rovine, crollo nel
crollo” (Il ponte), in cui ognuno è vittima e complice. Come
scriveva Zanzotto, “In questo progresso scorsoio, / non so se vengo
ingoiato / o se ingoio”. Perché quel che è peggio è che tutto questo è
avvenuto non per ukase ma per volere della gente. Lo scempio è stato fatto, scrive Trevisan in Tristissimi giardini,
“nel modo più opportuno a soddisfare le esigenze della comunità”. Che
chi ha così “dis-ordinato” il territorio lo abbia “insieme difeso dalle
deturpazioni e dagli inquinamenti, su questo ho dei seri, anzi
serissimi, dubbi; e se l’avesse difeso, non avrebbe probabilmente
soddisfatto le esigenze della comunità”.
Quello che Trevisan, di provincia e di umili origini, rimproverava,
tra le altre cose, agli intellettuali, perlopiù romanocentrici e
borghesi o piccoloborghesi, era l’ossessione per una fantomatica Realtà
che, a sua detta, non conoscevano affatto. Viene in mente un romanzo di
Dag Solstad, Tentativo di descrivere l’impenetrabile: un
architetto affermato, che da giovane ha contribuito alla costruzione di
un quartiere operaio su modelli utopici e ideologici e perciò falsati e
paternalistici, in piena crisi di maturità decide di lasciare la
famiglia per trasferirsi nella cittadella proletaria a cui al tempo
della rimpianta giovinezza aveva lavorato, pieno di teoria e buoni
sentimenti. Solo per scoprire che ai suoi operai (ormai sempre
meno operai) del teatro di comunità e degli spazi pubblici non importa
nulla: vogliono la parete di casa più ampia per uno schermo televisivo
gigante, e più spazio per parcheggiare le auto costose su cui spendono
tutto. I colleghi di cui racconta Trevisan in Works non sono da
meno: il sabato sera corrono in strada verso i discobar di provincia,
cercano i paradisi artificiali, risparmiano per fare i turisti sessuali a
Cuba o in Thailandia. Sono i figli della società dei consumi, né più né
meno della borghesia minima che ha reso l’Occidente a propria immagine e
somiglianza, se non che questa avanza persino pretese morali.
Ma entrambi sono vittime e responsabili al tempo stesso di quel “crollo totale di tutti i valori” di cui Trevisan parla ne Il ponte:
la “sostituzione dei vecchi falsi valori con valori d’importazione,
essenzialmente americana, altrettanto falsi, ma ben più potenti, perché
avanzanti di pari passo a una violenta omologazione industriale che
distruggeva e annientava, come ancora oggi distrugge e annienta, ogni
cultura particolare”, e tutto in nome di una libertà e di diritti
esportabili, perché prodotto a loro volta, che sempre più si rivelano
per ciò che nascondono, o meglio sottintendono, ossia “il dovere di comprare e consumare”, che non ammette dissenso.
È ovvia, in questi discorsi di Trevisan, la presenza di Pasolini, a
cui l’autore si appoggia per raccontare le conseguenze del “brusco
passaggio” dalla civiltà umanistico-agraria a quella
tecnico-industriale, quella, insomma, dei palazzi vuoti e degli
ex-contadini uniformati, senza terra, senza cultura, senza storia –
vuoto che si riempie (e si vende) con (e come) uno “spazio di mercato”.
Ma Pasolini poteva dire di preferire le lucciole alla Montedison,
fantasticando su un mondo rurale di cui, in definitiva, sapeva poco (in
ogni caso, viveva lontano). Zanzotto poteva sperare che il progresso
cosiddetto risparmiasse, dimenticandola, la sua contrada. Ferdinando
Camon può raccontare la fine della millenaria civiltà contadina, fatto
epocale e senza precedenti, con lo sguardo del testimone diretto, del
superstite. Trevisan, invece, è totalmente “postumo”. È nato troppo
tardi per conoscere una civiltà che non sia quella dei consumi. Come
scrive nel suo ultimo, amarissimo testo, Dove tutto ebbe inizio, pubblicato in coda all’edizione ampliata di Works:
Il mio territorio, di
cui ho vissuto la trasformazione, è ormai irriconoscibile. Non posso
però dire di essere “spaesato”; al contrario: è una trasformazione che
ho vissuto, a cui, vivendo e lavorando qui, ho fattivamente contribuito,
cosa del resto inevitabile. Il fatto è che “il prima” è durato troppo
poco per fissarsi come parametro definitivo. Così è per i nati nel
periodo del cosiddetto boom economico, a prescindere dalla loro classe
sociale. Il Veneto rurale è per me il ricordo di un ricordo, qualcosa
che è passato attraverso i miei genitori, ma che non ho mai davvero
vissuto. Credo valga per tutta la mia generazione. Grande differenza,
rispetto ai nati prima e durante la guerra. Il primo carro armato
americano con la stella, e poi il dopo, il lungo dopo, fino a oggi […].
Io, noi, siamo quelli del lungo dopo fino a oggi. E per tutto il dopo la
betoniera non si è mai fermata. I marchi politici sono cambiati,
esplosi rottamati e svenduti come tutto il resto.
From the wreckage of Europe
Cosa resta, quando tutto è un marchio, un prodotto, persino la
letteratura, persino la natura, persino la qualità, persino il valore? E
ci si può stupire che, per il Thomas bernhardiano di Trevisan,
l’effetto psichico di siffatto territorio sia il pensiero costante del
suicidio, costretto com’è a vivere “pensando di continuo alla morte” in
un “raffinato esercizio di equilibrismo” tra il disgusto della vita e la
paura dell’estinzione? Pensieri che non risparmiavano, né hanno di
fatto risparmiato, l’autore, che temeva di essere “imbalsamato” in vita
come Meneghello e Zanzotto e ammirava invece la coerenza di Carlo
Michelstaedter e Stig Dagerman, pur temendo di essere in ritardo, ormai,
per un suicidio all’apice del successo, e in ogni caso in Works
scrive: “che nessuno mi inviti a ballare perché io non ballo. Il
pensiero della morte è un bravo ballerino e sono già impegnato a vita
con lui”.
Il citato – e sconsolante – Dove tutto ebbe inizio, che sembra consegnarci i pensieri dell’autore nell’ultimo periodo, non lascia margine di interpretazione:
l’unica possibile via
d’uscita è prendere in mano la situazione di merda e stringere il nodo
subito, senza por tempo in mezzo. O così, o rassegnarsi ad aspettare,
con gli altri, che esso si stringa da sé, così che un giorno, in un bar
che frequentiamo di sfuggita, […] qualcuno dirà: È morto; e qualcun
altro chiederà, De cosa?; e il primo risponderà con un’altra domanda, De
cosa vuto che ’l sia morto? e tutto sarà chiaro. Se fosse stato un
infarto, o qualsiasi altra cosa, l”avrebbe detto. Ma da queste parti è
più probabile che la fine arrivi in forma di domanda retorica.
Se mi si perdona l’impudenza, si direbbe che Trevisan avesse previsto
esattamente ciò che la maggioranza dei giornali e delle testimonianze
hanno effettivamente scritto e detto dopo il 7 gennaio 2022.
Sottintendendo, dando per scontato. Come a dire, appunto: De cossa volío che ’l sia morto?
Ma vorrei tornare a Black Tulips, al sogno – o all’allucinazione – d’Africa. Il quale, rispetto al commiato di Dove tutto ebbe inizio,
spicca ancora di più nella sua leggerezza. Certo, è un sogno antico,
scontato, trito, probabilmente fallace, e in questo più
un’allucinazione, di cui fu succube, fra i tanti, persino Leni
Riefenstahl. Mutatis mutandis, è la stessa tentazione delle
borgate di Pasolini, degli esperimenti con l’India o con le isole
iperboree di Manganelli, di Michel Leiris, non per nulla qui spesso
citato. La ricerca, insomma, di un mondo se non del tutto incontaminato
quantomeno ancora “autentico”, violento, puro, preindustriale,
premoderno, originario, non assimilato e, idealmente, non assimilabile.
“Orientalismi”, appunto, lo scrive lo stesso Trevisan: “Impossibile
sfuggirvi”, in quanto oyibo.
Così si possono leggere le dicotomie, tutte note, che si susseguono in Black Tulips: la spontaneità e la fluidità dell’indigeno e dei suoi movimenti, da un lato, e l’artificialità e la pesantezza dell’oyibo, dall’altro; il nostro senso del tempo cronometrato e pianificabile, fatto di attese e scadenze e votato alla funzionalità, e il loro senso del tempo dilatato, imprevedibile, ingovernato; la loro abitudine e familiarità con la violenza e con la morte e la nostra
presunta e nevrotica estraneità alla violenza e alla morte. Il mito, in
altre parole, dell’assenza di rimozione. E la ricerca di regressione, o
di alleggerimento quantomeno.
Ma Black Tulips è anche un testo che nasce da una genuina
curiosità, e vicinanza ideale, e persino sincero amore dell’autore per
questa periferia globale verso cui si sposta dalla sua, ormai
irrecuperabile, periferia municipale e nazionale. A un mondo in cui non
c’è più niente da salvare e che, se preso seriamente, rischia di
condurre all’unica conseguenza logica, ossia il rifiuto categorico
dell’esistenza, Trevisan ha voluto in ultimo opporre il sogno di un
viaggio, per quanto bolso e letterario, nell’Africa “più vecchia e più
giovane insieme” dell’Europa alle prese con la sua autodigestione,
accompagnato da una serie di vivissime beatrici – Ade, Gloria, Chika,
Hellen, Isegwe. Viene in mente il Canto LXXVI di Ezra Pound: “As a lone ant from a broken ant-hill / from the wreckage of Europe, ego scriptor” (Come una formica sola da un formicaio infranto / dal relitto d’Europa, ego scriptor).
Ed è un sogno incompiuto, oltretutto, che si interrompe sul più
bello. Come tutti i sogni, peraltro, e come moltissime delle opere
architettoniche che Trevisan ammirava e che riempiono la periferia
diffusa del suo Nord-Est. Black Tulips si interrompe poco dopo
l’arrivo a Benin City. Questa volta non c’è ritorno in Italia. La
parabola dello scrittore Trevisan termina là dov’era iniziata, alle
porte della sua seconda vita, e però senza epilogo. Cossa volío che ’l sia capità? Consegnandoci, se vogliamo, un”estrema immagine sospesa dell’artista che sorride.
Emanuele Zoppellari Perale è nato nel 1994. Ha studiato
filosofia e letteratura alla University College London, all’Università
di Oslo e a Ca’ Foscari, Venezia. È autore di una raccolta bilingue di
sonetti e ha tradotto un saggio sul dandismo.