La scellerata decisione di Mussolini era la logica conseguenza della
lotta fascista contro le corporazioni dei lavoratori e dei loro
sacrosanti diritti
La Festa del Lavoro, intesa come momento di lotta internazionale di
tutti i lavoratori, senza barriere geografiche né sociali, per affermare
i propri diritti e migliorare la propria condizione, ha origine
lontane. Dopo migliaia di anni di osceno sfruttamento, con turni di
lavoro che arrivavano alle sedici ore al giorno (uomini, donne, persino
bambini), a metà dell’Ottocento cominciò a svilupparsi una coscienza
civile ed umana, onda lunga della rivoluzione illuminista del secolo
precedente. Nella lontana Australia, luogo d’emigrazione e di lavoro,
nel 1855 si coniò una parola d’ordine su cui si fonderanno le politiche
dei movimenti sindacali organizzati di fine secolo e del Novecento:
“Otto ore di lavoro, otto di svago, otto per dormire”. Era un concetto
rivoluzionario, che andava al di là della dimensione lavorativa, e che
mirava ad allargare la sfera dei diritti di ogni cittadino.
La
proposta concreta che scaturì dal congresso dell’Associazione
internazionale dei lavoratori – la Prima Internazionale – riunita a
Ginevra nel settembre 1866, si rifece direttamente al grido che giungeva
da quel continente lontano: “Otto ore come limite legale dell’attività
lavorativa”. E, a testimonianza dell’internazionalità della lotta, la
questione del limite orario divenne il cavallo di battaglia dei
movimenti sindacali statunitensi: fu in quel Paese, capitalista per
eccellenza e già notevolmente industrializzato, che si combatterono
nell’Ottocento le battaglie più cruente e sanguinose.
Nell’ottobre
del 1884 le organizzazioni sindacali indicarono nel 1° Maggio 1886 la
data limite, a partire dalla quale gli operai americani si sarebbero
rifiutati di lavorare più di otto ore al giorno. Fu indetto uno sciopero
generale a cui parteciparono quattrocentomila lavoratori; a Chicago ne
sfilarono ottantamila, e la manifestazione venne repressa nel sangue. Ad
essa seguirono giorni di violenti scontri in tutte le grandi metropoli
americane, culminati il 4 maggio col massacro di Haymarket, dove 11
persone persero la vita. Ma la lotta contro il capitalismo selvaggio e
senza regole continuava.
Adesso toccava all’Europa. Il 20 luglio 1889
a Parigi si tenne il congresso della Seconda Internazionale, che decise
di organizzare una grande manifestazione in una data stabilita. La
scelta cadde sul 1° maggio, per commemorare la carneficina di Haymarket:
il ricordo dei “martiri di Chicago” divenne simbolo di lotta dei
lavoratori di tutto il mondo.
Anche in Italia le organizzazioni
sindacali intensificarono l’opera di sensibilizzazione sul significato
del 1° maggio, mentre i governi, più o meno liberali o autoritari,
misero a punto gli apparati repressivi. Malgrado la mancanza di un
centro organizzativo, la riuscita delle manifestazioni del 1° maggio
1890 costituì un salto di qualità del movimento dei lavoratori, che per
la prima volta diede vita ad una mobilitazione su scala nazionale,
collegata all’iniziativa di carattere internazionale.
Visto il
successo di quella che nelle intenzioni doveva essere una
rappresentazione unica, si decise di replicarla l’anno successivo, ed
essa divenne una tradizione consolidata, un appuntamento al quale il
movimento dei lavoratori si preparava con sempre maggiore
consapevolezza. Aumentavano gli obiettivi, altre rivendicazioni
politiche e sociali s’imponevano.
Il 1° maggio 1898 coincise con la
fase più acuta dei “moti per il pane”, con il tragico epilogo di Milano,
nei giorni dal 6 al 9 maggio, quando l’esercito di Bava Beccaris
cannoneggiò la popolazione inerme, lasciando sul selciato 81 morti e 450
feriti.
Nei primi anni del Novecento la festa si caratterizzò anche
per la rivendicazione del suffragio universale, poi per la protesta
contro l’impresa libica, quindi contro la partecipazione dell’Italia
alla guerra mondiale. Internazionalismo, pacifismo e diritti dei
lavoratori si saldavano sempre più.
Finalmente, il 1° maggio 1919 i
metallurgici e altre categorie di lavoratori poterono festeggiare il
conseguimento dell’obiettivo originario della ricorrenza: le otto ore di
lavoro. Ma un formidabile nemico del popolo e dei lavoratori tesseva la
sua tela omicida.
Nell’ottobre del 1922 Benito Mussolini diventò
Presidente del Consiglio, e uno dei primi atti del suo governo cancellò
con un colpo di spugna il 1° maggio e il suo significato, maturato in
anni di sanguinosissime conquiste dei lavoratori: il 19 aprile del 1923,
con un decreto-legge da lui proposto ed approvato dal Consiglio dei
ministri, la festività venne abolita ed accorpata alla festa ufficiale
del fascismo, che coincideva con il “Natale di Roma”, il 21 aprile,
dallo stesso tiranno proclamata. Soltanto l’anno prima, il presidente
del Consiglio Facta aveva riconosciuto il 1° maggio come giornata
festiva.
La scellerata decisione di Mussolini era la logica
conseguenza della lotta fascista contro le corporazioni dei lavoratori e
dei loro sacrosanti diritti, che già prima della presa del potere si
era concretizzata durante il cosiddetto biennio rosso, quando le
squadracce in camicia nera si macchiarono di violenze inaudite contro le
organizzazioni operaie socialiste e comuniste, con vergognose caccie
all’uomo, omicidi e distruzioni, violenze tollerate e persino sostenute
dagli organi dello stato liberale: una macchia indelebile nella storia
di questo Paese.
All’atto formale il tiranno fece seguire atti
sostanziali, con operazioni a tenaglia: la milizia fascista venne
sguinzagliata per intimidire e aggredire operai e contadini, soffocare
ogni manifestazione di protesta nelle fabbriche e nei campi, mentre le
autorità di pubblica sicurezza si occuparono di stroncare ogni movimento
teso a difendere i diritti dei lavoratori e a prevenire azioni
collettive e individuali operanti in tal senso: retate, arresti
preventivi, sequestri di materiale e chiusura di fogli e giornali
divennero la tetra normalità. Festeggiare il 1° maggio divenne un reato
duramente punito.
Ma il pugno di ferro del regime non conosceva
limiti: nel biennio 1925-26 furono proclamate le cosiddette
“leggi fascistissime”, che dichiararono fuorilegge le associazioni
sindacali non irreggimentate, vietarono il diritto di sciopero e la
serrata. L’anno seguente entrò in opera il famigerato Tribunale Speciale
dello Stato, che comminò migliaia di pesantissime condanne: nel solo
1928, per aver celebrato il 1° maggio, sette operai di Trieste, cinque
di Verona, tre di Torino e uno di Milano vennero condannati ad oltre 102
anni di carcere. Di fronte a tale spietata durezza, persino il ricordo
del 1° maggio del 1921, definito dall’Avanti! “il più tragico, il più
tempestoso, il più significativo tra quanti ne ha solennizzati la classe
lavoratrice d’Italia”, impallidiva.
La volontà del regime di
estirpare alla radice il significato più autentico del 1° maggio fu così
tenace da sfociare nella psicosi e nella pura idiozia: negli anni
Trenta in Romagna gli squadristi irrompevano nelle case in cerca di
tortelli, serviti nei giorni di festa.
Bisognerà aspettare il crollo
del regime e il 1945 perché gli effetti del decreto del 1923 cadessero, e
quella ricorrenza tornasse a rappresentare la data simbolo della Festa
del Lavoro, liberamente celebrata da milioni di lavoratori.
In
occasione di questa gloriosa ricorrenza, non sarà quindi inutile
ricordare che quella di un Mussolini schierato a fianco del popolo e dei
lavoratori è una delle maggiori balle che ancora circolano su quel
triste figuro.